La calvizie, in tutte le sue forme, è un fenomeno molto delicato da affrontare.
Se l’alopecia da chemioterapia è vista come un passaggio momentaneo legato ad un problema di salute importante, l’approccio è del tutto diverso nei confronti di forme più durature di calvizie.
Nella società occidentale c’è sempre più attenzione verso la caduta dei capelli dovuta a ragioni oncologiche e tale aspetto viene affrontato con un certo tatto (ne abbiamo parlato qui).
Il discorso cambia, invece, per quanto riguarda l’alopecia genetica o dovuta ad altri fattori (stress, cicatrici, altre cause psico-fisiche), sia femminile che soprattutto maschile. In questi casi, infatti, il carattere più o meno permanente e “definitivo” della patologia porta ad un approccio esterno molto differente, spesso caratterizzato da distacco, ripugnanza, scherno.
Cos’è il trico bullismo
Chiariamo subito un concetto: giudicare o deridere una persona per il proprio aspetto fisico è una pratica da condannare. Il body shaming è un fenomeno sempre più comune che non si limita a colpire chi soffre di obesità o anoressia, ma abbraccia tanti altri aspetti estetici tra cui, appunto, la calvizie.
Il cosiddetto trico bullismo (o bald shaming) è un comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, di natura fisica e/o psicologica verso altri individui, ripetuto nel corso del tempo ed afferente la sfera dei capelli.
“Sembra che hai un gatto in testa”
“Sei ridicolo”
“Stavi meglio prima”
“Fai impressione”
Queste sono alcune delle frasi più comuni che un uomo si sente dire dopo aver scelto una soluzione alla calvizie. Certe parole, così come lo strappar via una bandana o tentare di staccare una protesi, possono essere considerati gesti violenti di carattere fisico e soprattutto psicologico.
Ovviamente non tutti reagiscono male, anzi spesso è la persona stessa a riderci su.
Tuttavia, a prescindere da quale sia il livello di offesa, di quali siano gli intenti finali e di quale sia la reazione, questi atteggiamenti rappresentano una forma più o meno evidente di bullismo.
Il bald shaming non riguarda solo le persone affette da calvizie
Il bald shaming non si limita alla derisione dell’alopecia, ma ruota attorno anche alle varie soluzioni: dalla bandana al trapianto, dalla tricopigmentazione alla protesi.
Queste manifestazioni di scherno non le subiscono solo le persone che ricorrono alle soluzioni alla calvizie, ma anche gli operatori del settore.
Capita spesso anche a noi! Molte volte, nei contenuti che pubblichiamo sui nostri canali social, leggiamo battutine, risatine e insulti di vario genere a noi, ai nostri clienti o persino verso i propri amici “pelati” che vengono taggati nei post a mo’ di scherno, del tipo “Questo è quello che ci vorrebbe per te”.

Anche questo è bald shaming, anche questo è una derisione insensata delle condizioni fisiche e psicologiche altrui, e – se permettete – è anche un’offesa al nostro lavoro.
Perché condannare la derisione della calvizie
Come detto, ci sono vari livelli di trico bullismo. Uno degli aspetti fondamentali da considerare, tuttavia, è che l’effetto provocato non dipende solo dalle parole utilizzate, dai gesti fatti e dagli intenti più o meno scherzosi, ma è legato soprattutto a come reagisce la persona interessata.
Dietro alla calvizie non c’è solo un cambiamento d’immagine, ma c’è un’evoluzione personale che può aver portato a scompensi emotivi, vergogna, disagio sociale e tanto altro.
Le donne e gli uomini affetti da alopecia (che, ribadiamo, si presenta in varie forme dovute a cause diverse) hanno una storia personale di cui non conosciamo i contorni e dunque non sappiamo esattamente né che reazioni possano avere ai giudizi esterni né che battaglie quotidiane stiano combattendo.
Basti pensare che una recente sentenza nel Regno Unito ha stabilito che definire un uomo “pelato” sul luogo di lavoro è una “violazione della dignità” e persino una “molestia sessuale”.
Evitare la derisione della calvizie e condannare le forme più evidenti di bald shaming, insomma, è un gesto di rispetto e di civiltà, a garanzia della libertà estetica e a tutela della salute psicologica di ciascuno di noi.